I principi dell’Umanesimo quattrocentesco avevano risvegliato l’interesse per gli studi sul corpo umano e per la medicina in generale. Oltre agli “hospitali” medievali, dove vecchi, orfani, poveri e infermi trovavano l’assistenza caritatevole di monaci e suore, sorsero così in quel tempo lazzaretti, dove i malati di peste venivano isolati per evitare la diffusione del contagio e ospedali nel senso moderno del termine, cioè veri e propri luoghi di cura per assistere i malati e permetterne, possibilmente, la guarigione per un loro reinserimento nella vita produttiva.
I problemi sanitari della popolazione erano legati alla povertà, alla malnutrizione e anche alle scarse condizioni igieniche. Guerre, carestie e pestilenze mietevano vittime; alla lebbra e alla tubercolosi si aggiunsero altre malattie come il tifo petecchiale, la malaria, l’influenza e inoltre la sifilide o “mal francese”, con forme più gravi e virulente importate dall’America in seguito alle spedizioni colombiane e diffusesi in Spagna, in Italia (nel 1495) e successivamente in tutta Europa.
Lo scopo della medicina nel Cinquecento era prevalentemente preventivo, dato che le cure chirurgiche e mediche non erano molto efficaci. Le cause delle malattie erano attribuite a fattori meteorologici o ambientali, alla sporcizia, ad influenze astrali, talvolta a spiriti malefici trasmessi dall’aria, a veleni o germi (seminaria) trasmessi da contatto o dovuti a comportamenti troppo licenziosi.
La cura del malato era affidata al “Medico dotto” che faceva riferimento ai principi di medicina presenti negli antichi testi greci e latini di Ippocrate, Galeno e Aulo Cornelio Celso, nonché nelle opere della cultura islamica e in quelle del contemporaneo Paracelso.
Galeno da Pergamo (Pergamo 129 – Roma 201c.)
Abu al-Qasim 936-1013, considerato il padre fondatore della chirurgia moderna
Per contro, uno stuolo di ciarlatani girava per le piazze e spacciava unguenti o altri preparati come rimedi per varie malattie; praticava estrazioni dentarie e acconciava ossa, riducendo le lussazioni. Tali figure erano ricercate da chi non poteva permettersi le prestazioni del medico: ci si rivolgeva anche alle “Vetulae”, donne che curavano con pozioni, reliquie e segni di croce, e alle mammane per le prime necessità ostetriche e pediatriche.
Tra la medicina dei ricchi e quella dei poveri si collocava l’empirismo medico dei barbieri e dei chirurghi.
I barbieri esercitavano legalmente nei villaggi e nelle campagne praticando incisioni, salassi, estrazioni dentarie e riduzioni di lussazioni. I chirurghi erano abili artigiani che utilizzavano arnesi dello strumentario ippocratico-galenico o arabo-musulmano e operavano col ferro e col fuoco per ridurre fratture o lussazioni, o per eliminare parti malate, ispirandosi al detto ippocratico:
“quel che il farmaco non risana, risana il ferro; quel che il ferro non risana, risana il fuoco; quel che il fuoco non risana, nessun farmaco può risanare”.
Pur partendo da una posizione subordinata rispetto al medico dotto o medico fisico, anche il chirurgo, fin dal Quattrocento, stava diventando un professionista acculturato, con una buona base teorica, fatta soprattutto di conoscenze anatomiche.
Nel Cinquecento si assiste infatti al salto di qualità della chirurgia, da competenza tecnica di cerusici a vera disciplina scientifica per medici. Questo progresso si deve alla rivoluzione metodologica cui hanno contribuito il ferrarese Giovanni Manardi e Giovanni Battista da Monte, detto Montanus, caposcuola di Medicina a Padova fino al 1551. Pur riconoscendo il valore dei testi degli antichi padri della medicina, in linea con la rivalutazione dei medesimi avvenuta proprio nel XVI secolo, viene ribadita la necessità, per il progresso della medicina, di un approccio realistico ed investigativo, con un’accurata osservazione dei sintomi di una malattia per risalire alle cause che l’hanno generata e giungere alla guarigione dell’individuo, fine ultimo dell’Ars Medica. Montano fu il primo, nel 1543 a portare i propri studenti nell’ospedale San Francesco di Padova per far loro esaminare i malati, esortandoli ad integrare ed ampliare le conoscenze apprese sui testi con le osservazioni clinico-pratiche.
Rembrandt, Il dottor Nicolaes Tlpo dimostra l’anatomia del braccio
Nello stesso anno Andrea Vesalio, medico e anatomista fiammingo, giunto a Padova nel 1537, pubblicò il “De humani corporis fabrica”, frutto delle sue accurate ed innovative dissezioni anatomiche e delle sue nuove concezioni anatomiche che lo portarono a rifiutare l’anatomia galenica e a rivoluzionare la prassi anatomica meritando il titolo di padre della moderna anatomia. Per coincidenza, sempre nel 1543, si ha la pubblicazione del “De revolutionibus orbium coelestium” di Copernico. Nel Cinquecento anatomia e chirurgia sono strettamente legate e in continuo progresso: a Padova l’eredità di Vesalio venne raccolta da Gabriele Falloppio e da Realdo Colombo.
Nel 1565 Girolamo Fabrizi accetta l’incarico di lettore di chirurgia; dal 1571 iniziò anche ad insegnare anatomia. Era il chirurgo più famoso e ricercato del tempo, abile negli interventi e nella progettazione di strumenti chirurgici e correttivi; attento ed acuto nelle dissezioni anatomiche, innovatore nella didattica e attivo nella ricerca.
Le dissezioni anatomiche prima di Fabrizi venivano effettuate all’aperto, in genere d’inverno, per mano di un chirurgo o cerusico. Il docente, invece, descriveva gli organi senza intervenire materialmente, dall’alto del suo scranno.
Teatro anatomico del Fabrizi a Padova. Primo teatro anatomico stabile costruito nel 1594
La considerazione di cui Girolamo godeva negli ambienti di potere lo rese cauto a non schierarsi apertamente per proseguire la missione teorico-culturale avviata da Vesalio che avrebbe voluto riunire la tecnica chirurgica e l’anatomia a tutto il resto della medicina, riconoscendone il pari valore.
La sua fedeltà alla fisiologia galenica gli impedì di interpretare correttamente la funzione delle valvole venose, da lui peraltro descritte in modo accurato nel “De venarum ostiolis” del 1603.
Tavola dal “De venarum ostiolis”
Fu, invece, un suo allievo, William Harvey, a comprenderne la funzione anti reflusso e a descrivere lo schema completo del circolo sanguigno (1628).
Harvey, usando le stesse tavole di Fabrizi d’Acquapendente, dimostrò che nelle vene il sangue non aveva decorso centrifugo, come invece sosteneva Galeno, secondo cui il sangue andava dal fegato alla periferia. Fabrizi aveva interpretato quelle tumefazioni che si vedono quando si comprime una vena (e dovute alle valvole venose) come delle porticine che servivano per rallentare il flusso dal centro alla periferia, Harvey dimostrò esattamente il contrario: infatti aveva visto che, mettendo un laccio ad una vena, che pertanto diventa turgida, e poi chiudendo altri due segmenti, il sangue non va dal centro alla periferia ma dalla periferia verso il centro.
Quindi Harvey intuì il meccanismo della circolazione venosa, comprese che il cuore era come una pompa che metteva in circolo il sangue, ma non riuscì a trovare l’anello di congiunzione tra le arterie e le vene non potendo ancora vedere i capillari. I capillari vennero poi scoperti, più tardi, da Malpighi negli animali a sangue freddo ed in quelli a sangue caldo da Spallanzani che confermò le precedenti osservazioni di William Cowper (1666-1709). Questa nuova teoria ebbe diversi consensi ma anche molte critiche, anche perché il concetto della circolazione fu associato a idee politiche sulla circolazione del potere. Perciò Harvey all’inizio fu criticato moltissimo ma poi la sua teoria si affermò declassando il fegato che da organo principale divenne invece solo l’organo che secerne la bile. Addirittura ci fu un famoso anatomico Thomas Bartholin (maestro di Stenone) che pubblicò le exequiae del fegato.
È comunque innegabile il merito che ha avuto Fabrizi nel far acquistare dignità accademica alla chirurgia. Dice l’Acquapendente:
“… questa parte della medicina è più potente di quella che purga con medicamenti; e certo meritamente, quando che nella parte medicamentale molto conferisce la Fortuna, come dice Celso, e nella Cirugia dipenda tutto il profitto dall’istessa, e sia l’effetto suo evidentissimo fra tutte le parti della Medicina.”